Non eravamo mai andati al di là del muro a secco, dove si vedevano solo il cielo e i filari delle vigne. Ci avevano detto di non allontanarci dal paese e così abbiamo fatto dall’inizio dell’estate. I giorni passavano uguali giocando a pallone a ridosso della chiesa, o alla guerra fra le case diroccate, ma ogni tanto guardavamo il muro e le viti dai grappoli acerbi che scendevano lungo il colle fino alla valle sottostante.
Dopo cena ci fermavamo sul balcone che univa le stanze aperte sulla parete della casa. Nel cielo il buio era calato e restava solo un ultimo bagliore a disegnare il profilo dei monti oltre la distesa delle viti. Quei declivi non più vuoti e inerti a sera erano punteggiati dalle luci di strade lontane e di paesi sconosciuti.
Nell’aria c’erano i grilli e la musica che scendeva dalla piazza, i grugniti dei maiali chiusi ai margini dell’aia e gli aerei invisibili che nel nero profondo inseguivano il sole in fuga verso il mare. Si stava così, anche per un’ora, con le gambe a penzoloni dalla ringhiera, tirando a indovinare quanto distassero da noi quelle luci e come potesse mai essere la gente di laggiù.
Un giorno Ale mi ha detto che era ora di finirla di giocare, bisognava capire le intenzioni di quelli delle luci. “Non sappiamo chi sono e cosa fanno, forse sono popoli nemici e magari neanche umani!”, ha aggiunto, in piedi su una vecchia macina indicando verso i monti con il fare dei momenti seri.
Poi mi ha svelato un segreto tenuto per sé fino ad allora. Una notte aveva visto dei lampi scendere dal cielo su quei luoghi e giurava che non era stato come nei normali temporali: non pioveva e ai lampi caduti sui monti dalle nubi ne seguivano altrettanti di risposta verso l’alto, quasi come scambi di colpi di cannone. “Chi può fare cose del genere?” mi ha urlato Ale con la rabbia di chi pensa di non essere creduto.
Ma io credevo ad Ale, sempre, credevo a lui e a ogni sua parola. Quando mi ha visto spaventato è sceso dalla macina e si è avvicinato per calmarmi. “Non aver paura, non dobbiamo pensare a tutto noi, in paese c’è chi è capace di fare cose che non ti puoi neanche immaginare, cose da far tremare anche quelli delle luci”.
E mentre parlava ancora si è messo a correre facendo segno con la mano di seguirlo. Ale volava sul sentiero di terra battuta che si snodava tra le case abbandonate, saltava le pietre cadute dai muri alzando le braccia come ali, seguiva una sua via segreta imbucando i vicoli senza alcuna esitazione.
Io gli stavo dietro cercando di imitare i suoi veloci spostamenti, i balzi e gli appoggi sicuri sull’orlo delle buche. Anche io volevo essere incurante del pericolo di bisce e di scorpioni, anche io invulnerabile e leggero sui cocci di bottiglia sparsi fra i ciuffi d’erba secca. Ale è sbucato fuori dalle ultime case e ha raggiunto in breve i cespugli di more che segnavano la fine del paese da quel lato. Si è accucciato dove sembrava aprirsi un passaggio tra i rami spinosi e mi ha fatto segno di andargli a fianco senza far rumore.
Al di là delle more si alzava del fumo da un fuoco acceso per bruciare degli sterpi. Un vecchio ha buttato sulle fiamme alcune frasche e si è seduto accanto a un capanno, ha preso qualcosa da un piccolo sacchetto, lo ha portato alla bocca e si è messo a masticare rivolto verso il fuoco. “Quello è Faccia di quercia”, ha sussurrato Ale con un filo di voce, “è vecchio, ma è forte come un bue, e può fare quel che vuole: guarda, non ha i denti e tritura come niente le castagne secche!”.
Faccia di quercia masticava lentamente e noi guardavamo incantati quelle guance di corteccia distendersi e contrarsi mosse da chissà quali forze misteriose. Ale ha indicato verso un albero vicino. C’era un uomo in piedi tra i rami che parlava verso le nuvole e sembrava rivolto a qualcuno affacciato lassù ad ascoltarlo. “Quello è Ghianda, il figlio di Faccia di quercia, si arrampica dove vuole e se cade non gli succede niente, pare abbia qualche santo in Paradiso”.
Dopo aver osservato padre e figlio ci siamo ritirati per non farci scoprire e, appena giunti al riparo delle case, Ale mi ha assicurato che questo non era ancora niente. Poi si è rimesso a correre seguendo i suoi tragitti.
A volte attraversavamo il paese e scendevamo fino al fiume, che segnava sotto le fronde degli alberi il confine con i campi. Aperto un varco tra i cespugli, gettavamo nell’acqua dei fili con le esche e restavamo a vedere se qualcosa veniva ad abboccare. Una mattina eravamo sdraiati con gli occhi al cielo e il braccio disteso verso l’acqua nell’attesa di sentire tendersi le lenze. Mi stavo quasi addormentando quando abbiamo sentito delle voci.
Un rumore di tuffi ci ha fatto dimenticare subito la pesca. “Le si-re-ne!”, mi ha scandito Ale in un orecchio. “Non farti vedere, se no scappano”, ha aggiunto scostando appena le foglie davanti agli occhi. Corpi bianchi scorrevano veloci dietro la sottile barriera di fogliame. “Adesso non fa freddo ma io le ho viste fare il bagno nel fiume anche d’inverno e pure sotto ai temporali veri, quelli con la pioggia”.
Le sirene hanno improvvisato una danza sul fondale basso. Emergevano dalla vita in su con le braccia ad arco sulla testa e si lanciavano in brevi piroette prima di ricadere nel fiume con un tonfo. Un ballo che si è trasformato presto in scambi di schizzi d’acqua e bordate di terra fradicia raccolta dall’argine fangoso. “E anche queste figurati se hanno paura di quelli delle luci”, ha detto Ale allungando il mento verso le urla e i gridolini.
Il cane stringeva la manica tra i denti e mi tirava per il braccio, ringhiava e strattonava. Non aveva la parola ma si spiegava bene, voleva che mi alzassi e lo seguissi. Quando ho aperto gli occhi Ale era lì.
“Dai alzati, dobbiamo andare”
“Dove?”
“All’osteria del Tordo, subito!”
“Ma è buio, non posso uscire di notte”.
“Per una volta dovrai disobbedire”.
“Perché?”
“C’è una gara di bevute, ci sono i più forti del paese, dobbiamo vedere tutti quelli su cui si può contare”.
Camminavamo rasenti ai muri nei vicoli deserti, attenti a non far rumore, con le ombre che si allungavano davanti quando superavamo le luci appese fuori dalle case. Non avevo mai visto il mondo a quell’ora della notte, ogni cosa mi sembrava nuova e tutta da scoprire.
L’osteria del Tordo è apparsa dopo una curva in fondo alla discesa, quasi fuori dal paese. Auto, vespe e motorini erano ammassati fuori dal locale da cui arrivavano urla e risa. Ale si è arrampicato sul cofano di un auto e mi ha fatto segno di salire. Da una finestra abbiamo iniziato a sbirciare dentro l’osteria.
Un fumo denso riempiva la stanza e rendeva difficile vedere. “Non è di sigarette”, mi ha sussurrato Ale nell’orecchio, “questa sera, nell’aria, ci sono le anime dei morti”. Poi abbiamo distinto delle ombre attorno a un tavolo e due uomini seduti con davanti a loro una serie di bottiglie vuote. “Sono Palla e Filo, fanno a chi beve di più e peggio, roba da stomaci di ferro”, mi ha spiegato Ale con un’espressione piena di ammirazione.
Palla ingollava vino da un cartone, la testa rovesciata indietro, il braccio alzato e il pomo in movimento come la biella di un motore. Filo svuotava in una brocca ogni bottiglia che gli passavano dal banco, compresa quella del sapone per i piatti, poi ha appoggiato le labbra sul bordo di vetro e ha iniziato ad aspirare. Un rumore potente è salito verso l’alto e ogni cosa si è messa subito a tremare, sembrava un’idrovora messa in azione per aspirare le acque dopo un’alluvione.
Ho pensato che tanta forza non si sarebbe potuta più fermare. Finito l’intruglio nella brocca, Filo avrebbe continuato a risucchiare tutto quello che si trovava nell’osteria del Tordo: i bicchieri, le bottiglie, i tavoli, le sedie e, uno a uno, tutti gli uomini riuniti lì per assistere alla sfida.
Ma non è andata così. A un tratto l’idrovora ha cessato il suo lavoro, Filo ha alzato la testa ed è rimasto così per un secondo, guardando stupito tra le assi del soffitto. Poi è caduto indietro come un albero tagliato, tra le gambe di chi gli stava attorno.
Palla lo ha seguito a breve spazzando via le bottiglie in ogni direzione. Dalla bocca di Filo si è alzata una bolla di sapone, piena di luci e di riflessi, si è mossa leggera nell’aria fumosa del locale e poi è svanita in uno scoppio silenzioso. “La gara è finita, speravo meglio, sembra un pareggio, ma comunque con gente così non abbiamo nulla da temere”, ha concluso Ale saltando in strada dal cofano dell’auto.
Nell’aria di fine agosto appena lavata dalle piogge il sole entrava in casa prepotente, svelando il pulviscolo negli angoli più bui e la danza della polvere nella luce filtrata dalle imposte.
La porta della camera era aperta quanto bastava per vedere la mamma fare pulizie. Spolverava con un panno giallo, percorrendo mensole e ripiani, fino ad arrivare vicino a papà seduto in poltrona a leggere il giornale.
“Senti”, ha detto rivolta alle notizie in prima pagina, “quest’anno è andata così, va bene, ma l’anno prossimo portiamolo al mare, dove può trovare qualche amico, dei bambini con cui giocare…”.
Il giornale si è abbassato appena un poco, si è mosso a destra e a sinistra, in alto e in basso, a piccoli scatti, per tornare alla fine nella prima posizione. La mamma è rimasta per un attimo in attesa e poi si è rimessa a fare pulizia. Ale se ne stava sdraiato sopra all’armadio, con le mani incrociate sotto alla testa e lo sguardo rivolto al soffitto, tormentando con i denti il gambo di una spiga.
Da tempo sentivo parlare della nuova provinciale che correva dietro ai monti, oltre la valle delle vigne. Me la immaginavo come un nastro nero calato dal cielo per unire città altrimenti lontanissime, qualcosa di innaturale e di alieno su cui sarebbe stato meglio non andare. Al solo sentirla nominare mi mettevo subito in allarme.
“E’ una bella soluzione, si risparmiano un bel po’ di chilometri, e per arrivarci basta prendere la strada bianca dopo quelle case”, ha spiegato papà alla mamma quando stavamo per partire. Non avevo mai notato quella striscia bianca che si snodava oltre il muro tra i vigneti, fino a salire e perdersi sui monti.
Ale era sparito. Nell’aia sentivo solo il rumore dell’auto, papà che ripeteva “è ora di partire!” e il respiro dei monti in attesa all’orizzonte. Ho scansato la mamma sulla porta di casa e sono corso in camera a prendere la pistola da cow boy abbandonata da tempo nell’armadio.
La macchina correva sulla strada bianca, alzando nuvole di polvere come fa la nave con le onde. Intorno si stendevano i filari delle vigne. Seduto dietro, accanto al finestrino, stringevo la pistola tra le mani e guardavo attento in ogni direzione.
Il verde delle viti si apriva dopo ogni curva e la macchina correva avanti quasi non ci fosse nulla da temere. “Dove sarà Ale?”, continuavo a domandarmi. Fuori il sole cadeva caldo sulla terra, ma io sentivo freddo. La pelle d’oca è arrivata con un brivido improvviso.
Allora mi sono venute in mente le suore bianche e la strada per arrivare fino a loro, il portone nocciola, i muri chiari ai lati della scala e la luce attraverso i vetri smerigliati. Le lunghe gonne ondeggiavano a ogni passo, mentre giocavo infilando i chiodini nel reticolo fitto di una griglia: i disegni che nascevano erano inattesi e dai colori inebrianti.
Poi ho pensato ad Ale e a quando ce ne stavamo seduti sui bordi dei fossi, o distesi fra i papaveri, parlando di quello che ci attendeva dopo l’estate, con un occhio alle gru che tiravano su le case al di là dei campi.
I giri del motore sono saliti e mi sono ritrovato lì dov’ero. In fondo alla valle la strada saliva sul pendio inerpicandosi con una brusca serie di tornanti. Terminati i filari sono comparsi degli alberi e poi, proseguendo la salita, il bosco è diventato via via più fitto non lasciando vedere cosa potesse esserci più oltre.
Le ruote si arrampicavano schizzando sassi ai lati della strada. Spingevano la macchina che avanzava veloce sotto le sferzate dell’acceleratore, schiacciato a ogni ansimare del motore. Non capivo come si potesse andare avanti così, senza nessuna preoccupazione.
Dopo una curva, a destra della carreggiata, all’improvviso, è apparso un muro di cemento. Era certamente il contrafforte di una costruzione difensiva, una barriera per fermare gli attacchi che potevano arrivare dalla valle. Ho stretto i denti e la pistola, mentre la macchina proseguiva ancora un po’ prima di rallentare.
Con Ale avevamo parlato spesso di forza e di coraggio. Di quando nella vita bisogna mettere da parte la paura. Le urla di guerra hanno iniziato a rimbombarmi nella testa: “Hooka Hey! Hooka Hey! Hooka Hooka Hey!”.
La macchina si è fermata. Ho alzato gli occhi appena appena. Papà e mamma sorridevano guardando nella stessa direzione. C’erano delle donne e dei vecchi seduti fuori da una casa, tutti facevano cenni di saluto.
Dei bambini sono sbucati da dietro il muro e sono venuti a vedere cosa attirava l’attenzione. Uno si è avvicinato alla macchina e mi ha salutato con le mani, imitato subito dagli altri. La pistola è scivolata sul sedile e ho fatto appena in tempo ad agitare le mani dietro il finestrino prima che papà ripartisse per la nuova provinciale.
Pubblicato su Infanzia
Tag: amicizia, ricordi, solitudine